ACCENDERE UN FUOCO (28-04-2023)

ANDARE A FONDO

To build a fire.

E’ il titolo di una racconto di Jack London.

Forse ne ho già parlato o forse no: lo richiamo per sommi capi.

Narra la vicenda di un esploratore che si trova ad attraversare tutto solo delle lande innevate a temperature proibitive.

Lo accompagna il suo cane.

Ad un certo punto, in un tratto di fiume gelato, il ghiaccio si rompe e l’uomo si bagna i piedi: di qui la necessità di accendere subito un fuoco per evitare il congelamento.

Nonostante le dite mezze congelate, riesce ad accendere un fuoco ma nel posto sbagliato: si è posizionato sotto un grosso albero dalle cui fronde, smossa dal calore, precipita una folata di neve che spegne il fuoco.

Non ha più fiammiferi per riprovarci e, come unica possibilità di salvezza, pensa di potersi scaldare con il suo cane.

Il congelamento intanto avanza e il cane non si lascia avvicinare: ‘sente l’odore della morte’, annota lo scrittore e dopo un po’ abbandona l’uomo al suo destino e si dirige verso l’accampamento.

La lezione che se ne può trarre qual è?

Che è bene non affrontare da soli certe situazioni: nel senso che nemmeno un cane può bastare. Bisogna, invece, sapersi scegliere i compagni giusti.

Il cane ha seguito il suo istinto e non si è comportato come l’animale che abbiamo imparato a conoscere nelle favole.

Ma che cosa fanno, poi, tanti esseri umani in situazioni simili?

Che cosa facciamo noi?

Quante volte vediamo sprofondare i nostri simili e non muoviamo un dito!

E non mi riferisco solo ai disgraziati provenienti da altri mondi ma, soprattutto, ai nostri vicini, alle persone del nostro quartiere, della nostra strada, del nostro caseggiato.

Persone che per una malattia, per la perdita del lavoro, anche per una nascita a volte o per qualunque altro improvviso accidente si trovano sradicati dal loro quotidiano tran tran e precipitati verso il basso lungo una china priva di appigli.

Scivolano, tentano disperatamente di riprendersi ma più si agitano e più sprofondano.

Proprio come chi si sia impantanato dentro le sabbie mobili.

E chi gli sta intorno vede tutta la scena, constata giorno per giorno il progressivo sprofondamento ma non fa assolutamente niente, in molti casi si gira da un’altra parte. Perché non è piacevole veder soccombere chi ci sta vicino: molto meglio cancellarlo dalla vista e dalla mente.

Ho visto talvolta un branco di leoni assalire uno gnu: lo abbattono e cominciano a cibarsene.

La mia attenzione è sempre stata attratta dagli altri gnu che tutti in cerchio si fermano a guardare il banchetto.

Non sempre così vanno le cose quando ad essere assalito è un bufalo: spesso questi erbivori reagiscono, trovano il coraggio di assalire i felini fino a farli scappare così da salvare il loro ‘compagno’.

Sarà perché siamo tanti, troppi forse o per non so quale altra nostra caratteristica genetica ma nei fatti, noi esseri umani che ci crediamo tanto sensibili e superiori, ci comportiamo come gli gnu.

Raramente e solo in casi eccezionali diventiamo ‘bufali’.

Lo so che sono cose che non si dovrebbero dire ma dobbiamo avere il coraggio dell’onestà.

Ci si può perdere commettendo l’imprudenza di viaggiare soli in un territorio ostile ma si può andare a fondo anche in mezzo ad una società affollata. Nell’indifferenza generale.

Tali siamo.

GROUND ZERO (10-04-2023)

E’ il punto più basso toccato dalla storia umana in una determinata epoca.

Naturalmente la valutazione è ‘soggettiva’ e dipende dalle circostanze e dalla temperie culturale di un periodo.

L’espressione è stata usata negli ultimi decenni in riferimento a fatti storici abnormi, la cui portata è stata vissuta quasi come extra storica, come spartiacque tra un prima e un dopo.

A ben vedere, a parte l’uso contemporaneo che ne facciamo, la locuzione si potrebbe riferire ad un’infinità di eventi che hanno marcato con il fuoco la storia umana: dai quali, tuttavia, l’umanità è sempre riuscita a ripartire e a rigenerarsi.

Almeno fino ad oggi.

E così con Ground Zero ci si riferisce alla distruzione delle Twin Towers del World Trade Center, crollate in seguito all’attacco terroristico dell’11 settembre 2001.

Ma le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki del 6 e del 9 agosto 1945 come le chiameremo?

E quanti altri Ground Zero ha vissuto l’umanità nelle varie parti della Terra?

A Ground Zero si saranno sentiti i popoli occidentali quando sono stati travolti e sottomessi dalle ‘nuove’ popolazioni giunte da Nord e da Est (quelle che noi chiamiamo ‘barbari’); lo stesso potremmo dire delle genti assoggettate dai Mongoli e dagli Arabi; e degli indigeni d’America e degli aborigeni australiani. … … …

C’è poi un Ground Zero individuale, che tocca le singole persone.

Personalmente ho vissuto come una specie di Ground Zero anche l’uccisione di Salvador Allende dell’11 settembre 1973.

Molti hanno avuto ed hanno la fortuna di non vivere mai un loro personalissimo Ground Zero, ad altri ne tocca più di uno.

Alcuni soccombono al primo.

Non è facile vivere un Ground Zero e ancora più difficile è continuare a vivere dopo.

Forse è più facile vivere e sopportare un Ground Zero ‘sociale’ rispetto a uno personale.

Il primo, per quanto atroce, imprevisto e terribile, si distribuisce su più soggetti, anche su migliaia o milioni, il che, se non attutisce il colpo, ne distribuisce l’impatto e ne stempera in qualche modo gli effetti.

Il Ground Zero personale è più complicato da gestire, più duro e imprevedibile.

Anche qui dipende molto dalla trama dei rapporti sociali in cui l’interessato è inserito.

Chi è solo impreca, fatica, si divincola, cerca disperatamente una via d’uscita: può farcela o no, dipende dalle sue note caratteriali e di personalità. Tutte le soluzioni, anche le più drastiche, sono possibili e nessuna è prevedibile.

Melius est ergo duos esse simul, quam unum … Si unus ceciderit, ab altero fulcietur: vae soli: quia cum ceciderit, non habet sublevantem se (Ecclesiaste 4, 10) «Meglio è dunque essere due insieme piuttosto che uno solo … Se uno cade, l’altro lo sostiene; guai a chi è solo, perché quando cade non ha chi lo rialzi».

Guai a chi è solo! Lo intima la Bibbia. Chi è solo rischia di non trovare appigli per risollevarsi.

Il fatto è che la condizione di ‘solitudine’ non è sempre il frutto di una scelta consapevole ma è spesso la conseguenza di una serie di circostanze non sempre dipendenti dalla volontà individuale.

Le stesse note caratteriali che spingono una persona a non coltivare i rapporti sociali, difficilmente possono essere ascritte ad un soggetto come ‘colpa’.

La vita è un po’ come una corsa sulle montagne russe: non sempre la direzione che si prende è frutto di una scelta deliberata e consapevole ma è spesso obbligata, dettata dagli eventi.

Percorri un certo sentiero perché una serie di fattori ti ci hanno indirizzato: non puoi conoscere in anticipo tutte le ripercussioni della tue scelte né puoi sempre modificare il corso degli accadimenti strada facendo.

Allontana da me questo calice’: nemmeno l’uomo-dio Gesù ha potuto sottrarsi al suo terribile destino di dolore e annientamento.

Oltre alla trama sociale può essere di aiuto anche la fede: il credente può attingere le forze che non ha dalla divinità in cui ha riposto tutte le sue speranze.

Ma nemmeno la credenza in una divinità è automatica: la fede, in un certo senso, è un po’ come il coraggio di don Abbondio. Se uno non ce l’ha o non riesce ad accoglierla, non se la può dare.

Per non soccombere e non darla vinta al ‘destino’, si può praticare l’epochè: non tanto e non solo come atteggiamento gnoseologico ma proprio come condotta ‘pratica’.

Mettere tra parentesi tutte le avversità che grandinano sulla vita quotidiana, accettare le sfide della vita senza piagnucolare e senza piegarsi, portare il proprio fardello con dignità, in faccia alla crudeltà del destino.

In attesa di che cosa?

Non c’è niente di preciso da aspettarsi, solo la consapevolezza (l’orgoglio?) della propria piccola grandezza.

Solo parole?

Può darsi.

In certe situazioni-limite, anche le parole sono azioni.

ARRESTATE PUTIN! (19-03-2023)

Il mandato di arresto internazionale è stato emesso dalla Corte penale internazionale dell’Aia.

Bene!

Lo stesso mandato dovrebbe essere emesso nei confronti di Biden, responsabile di orrendi massacri in Medio Oriente.

Nei confronti dei primi ministri inglesi, sempre a fianco degli americani nel bombardare e massacrare.

Nei confronti dei presidenti francesi per le atrocità perpetrate in Africa e dintorni.

Nei confronti dei regnanti dell’Arabia Saudita impegnati a bombardare quotidianamente lo Yemen.

Nei confronti del turco Erdogan, responsabile dei massacri compiuti a danno dei Curdi.

Nei confronti del cinese Xi, impegnato a reprimere violentemente gli uiguri.

Nei confronti di molti leader africani responsabili di veri e propri genocidi.

… … …

E’ stato emesso, senza alcun effetto, contro il sudanese Al Bashir, che continua ad essere uccel di bosco.

Gli unici che hanno subito le conseguenze di quei mandati di arresto, sono stati i leader Serbi: abbandonati da tutti, anche dai loro stessi compatrioti.

Che dire?

Che questo mandato d’arresto emesso contro il solo Putin sa tanto di strumento di lotta politica: con la giustizia ha poco a che fare.

Così, isolato e solo, esprime in maniera chiara tutta l’ipocrisia dell’Occidente.

Addirittura Biden si permette di commentare: ‘è giusto’.

Lui che avrebbe dovuto essere gratificato dello stesso mandato ben prima di Putin.

Esimio Occidente: se non sai essere coerente e deciso fino in fondo e con tutti, stai zitto, almeno. Fai più bella figura.

Diversamente pretendi di certificare che c’è massacro e massacro, atrocità e atrocità, nefandezza e nefandezza.

Su alcuni ci si volta da un’altra parte e si chiudono entrambi gli occhi, sugli altri ci si dimostra irremovibili.

Machiavelli non avrebbe potuto consigliare di meglio’.

Pena!

IL LIMITE (04-03-2023)

Qual è il limite di sopportazione dell’umana esistenza?

La vita umana sembra non avere limiti nel senso che ci sono (e ci sono sempre state) persone determinate a vivere al di là di ogni limite.

Di fatto, senza alcun limite.

Forse è una caratteristica della vita in quanto tale, che riguarda cioè tutti i viventi, comunque è certo che è un tratto che ci connota.

Il cinema ha raccontato in maniera inequivocabile questa nostra ‘qualità’.

Ma è soprattutto la Storia che documenta come i nostri simili siano stati disposti a sopportare le più inenarrabili sofferenze pur di rimanere aggrappati alla vita.

Anche nella vita quotidiana si possono condurre esistenze che navigano verso il limite, che gironzolano ossessivamente intorno al limite.

In questo caso, è chiaro, il limite è soggettivo, nel senso che quello che viene percepito da una persona come limite, per un’altra potrebbe essere un traguardo intermedio.

Vivere il proprio limite di sopportazione è comunque sempre pericoloso.

E’ una situazione che può preludere alle scelte più diverse.

Alla prosecuzione di quel tipo di esistenza o anche alla decisione di interromperla bruscamente con qualche atto che poi, dall’esterno, verrà considerato assurdo, incomprensibile e sconsiderato.

In effetti molte delle nefandezze che vengono quotidianamente messe in atto da alcuni dei nostri simili, sono determinate proprio da questo stato: sono commesse da persone che ad un certo punto non ce la fanno più a vivere il loro invalicabile limite e cercano di scaricare il loro peso nell’unica maniera che ritengono praticabile.

Anche uccidendo o annientandosi.

Abbiamo costruito un tipo di società molto poco comunitaria, parecchio individualista.

In sostanza ciò che accade agli individui riguarda loro stessi: principalmente e precipuamente.

La società interviene per quel poco o per quel tanto che è costretta: c’è chi riesce a tirarcela dentro per il collo nelle proprie disgrazie e allora ne ricava un certo sollievo. Altri, meno sfrontati e determinati, medicano come possono le loro ferite.

E’ chiaro che questo disinteresse ‘sociale’ verso le sciagure dei singoli membri produce frustrazione e rabbia che la maggior parte delle persone riesce in qualche modo a gestire, in alcuni soggetti – più deboli, più fragili – determina invece un’esplosione che colpisce o a caso o in modo mirato.

Da qui lo scandalo che induce molti, soprattutto a livello politico, a stracciarsi le vesti.

Un modo come un altro per nascondere le proprie responsabilità.

Chi è costretto a vivere il proprio limite, si sente spesso sbattuto contro due alternative secche: continuare all’infinito la propria auto consunzione o mettere in atto per proprio conto una sorta di inappellabile ordalia.

Per mitigare la prima ed evitare la seconda può essere d’aiuto la religione, la fede: ma se uno la fede non ce l’ha, non se la può proprio dare.

Può aiutare la filosofia: fin che la mente risponde ai comandi.

Avendo tempo si potrebbe praticare la meditazione, lo yoga o perdersi nella poesia e nella musica: ma ci vuole tempo, appunto, e chi si muove da equilibrista sulla lama del limite molto spesso questo tempo non ce l’ha o non riesce a trovarlo.

Che fare?

Tentare di accamparsi sul limite costruendo una specie di capsula dentro cui rifugiarsi mettendo la sordina a tutto.

Al mondo esterno, in primis, ma anche a sé stessi, alle proprie esigenze, alle abitudini e ai desideri.

Abituarsi a vivere come una pupa dentro il bozzolo in attesa di qualcosa che prima o poi accadrà.

Deve accadere.

L’orizzonte degli eventi’ sarà anche inavvicinabile ma ogni singola esistenza ha nel suo dna un orizzonte definito e ultimativo.

Che spegnendo la vita cancella anche ogni limite.

COME IN UNO SPECCHIO (19-02-2023)

E’ il titolo di una canzone di Eugenio Finardi.

Il testo è complesso e anche molto lungo ma, in sintesi, tratta della solitudine esistenziale.

Che si può e si deve superare cercando l’aiuto di chi lo offre, aprendosi a chi, vivendo gomito a gomito, può dare tutta la sua comprensione.

E’ anche il titolo di un angosciante film di Ingmar Bergman: che non tratta solo di solitudine ma pure di malattia mentale, di incomprensione e della difficoltà di vivere rapporti umani soddisfacenti o anche solo ‘normali’.

Lascio stare il film, estremamente complesso e, in certo senso, ‘duro’ da digerire.

E torno alla canzone che racconta delle mille dolorose tappe che possono punteggiare un’esistenza e che spesso spingono le persone a chiudersi in sé stesse in un progressivo isolamento che può essere foriero di tante ‘uscite’ diverse.

In ogni caso c’è sempre la possibilità di aprirsi, di trovare qualcuno pronto ad ascoltare, a capire, perfino a dare una mano.

A volte basta soltanto fare il primo passo.

E’ difficile ma ci si può riuscire.

Francamente poche volte in vita mia mi sono sentito completamente solo: sia perché sono sempre riuscito a trovare qualcuno pronto, non dico a darmi una mano, ma almeno ad ascoltarmi.

Quando ci si sente soli, l’ascolto diventa fondamentale: spesso è ciò che basta per superare la chiusura dell’orizzonte. In fondo, contrariamente a quanto canta Celentano, volendolo un ‘prete’ per chiacchierare lo si trova. ‘Prete’ sta per persona disponibile.

Se ti senti solo vieni da me’, canta Finardi.

E poi contro la solitudine aiuta anche il bagaglio culturale personale: il mondo che noi sintetizziamo con il termine ‘letteratura’, le poesie, i romanzi, le biografie …

E c’è la filosofia, ci sono le arti, la musica …

E gli animali: un cane o un gatto a volte possono dare quello che gli umani non sanno, non possono o non vogliono dare.

Io, invece, a volte mi sento stanco, infinitamente stanco: si tratta non solo e non tanto di stanchezza fisica ma, soprattutto, di spossatezza psicologica.

L’una e l’altra, insomma.

Che fare in questi casi?

Nessuna delle persone che ti stanno intorno ti possono dare le forze che hai esaurito.

Niente puoi attingere dalle arti e poco puoi avere anche dagli animali domestici.

Potresti ricorrere a dei farmaci: vi sento già che me lo state suggerendo.

Non ho mai cercato evasioni attraverso le sostanze chimiche e non credo alla loro azione miracolosa nemmeno in questi frangenti.

Capisco che potrebbero aiutare ma so che il loro effetto sarebbe temporaneo e che per averne un aiuto reale e continuato dovrei protrarre la loro assunzione nel tempo. Ne dovrei diventare schiavo, in un certo senso. Cosa che mi ripugna e che rifiuto.

Che fare?

Se ti senti solo vieni da me’.

E se ti senti stanco, infinitamente stanco, da chi vai?

Dove vai?

A VOLO D’UCCELLO (13-02-2023)

Platone nel Fedro, per illustrare l’essenza della natura umana, ricorre al mito della biga alata.

Prima della nascita l’anima spirituale è paragonabile a una biga guidata da un auriga e trainata da due cavalli, uno bianco e l’altro nero.

Il cavallo bianco rappresenta la spiritualità immateriale, la tensione verso il bene.

Quello nero esprime invece l’inclinazione verso ciò che è sensibile, concupiscibile: cerca di trascinare la biga verso il basso, il mondo degli appetiti e dei piaceri materiali.

L’auriga impersona la razionalità, cui è affidata la conduzione della biga: dovrebbe tenere a freno il cavallo nero e favorire l’anelito positivo del cavallo bianco.

L’incarnazione dell’anima in un corpo rappresenta in un certo senso la vittoria, almeno momentanea, del cavallo nero che riesce a trascinare la biga nella materia.

Se questa ‘caduta’ sarà avvenuta frettolosamente, prima che l’anima abbia avuto il tempo di contemplare adeguatamente il mondo delle idee, avremo un individuo ignorante, rozzo, schiavo delle passioni.

Se invece il cavallo bianco sarà riuscito, grazie anche all’azione dell’auriga, a mantenere per un certo tempo la biga nel mondo delle idee perfette e immutabili, allora avremo una persona saggia, capace durante la sua esistenza di recuperare gli elementi positivi contemplati e di vivere uniformandosi ad essi.

Dall’antichità ci sono arrivati diversi miti che offrono altri insegnamenti.

Prendiamo per esempio il mito di Icaro: com’è noto, si tratta del giovane figlio di Dedalo che con il padre fugge dall’isola di Creta dominata dal tiranno Minosse.

Abbandonano l’isola in volo, grazie a delle ali impastate con la cera costruite da Dedalo: per volare a lungo e salvarsi bisognava non abbassarsi troppo verso l’acqua (le ali si sarebbero appesantite trascinando in mare il malcapitato), né si doveva tendere eccessivamente verso l’alto (il sole avrebbe sciolto la cera e determinato la caduta in acqua del temerario).

Com’è noto Icaro, contravvenendo alle raccomandazioni del padre, si diresse verso il sole e precipitò nei gorghi del mare.

E c’è anche un altro mito estremamente interessante: quello di Prometeo.

Costui era un titano, una specie di semidio che, sfidando i divieti di Giove, donò agli uomini prima l’intelligenza e la memoria e poi anche il fuoco, dopo averlo rubato dall’Olimpo.

Giove lo punì incatenandolo ad una roccia: qua, ogni giorno un’aquila scendeva a squarciargli il ventre e a dilaniargli il fegato. Di notte le ferite si rimarginavano così che il giorno dopo l’aquila poteva ripetere l’operazione. Per l’eternità, visto che i titani erano immortali.

Rispetto a questi miti antichi, considerando a volo d’uccello le condizioni attuali dell’umanità, si possono fare alcune riflessioni.

L’umanità non ha alcun semidio che si dia da fare per lei ma, come scrive Monod, vive sperduta negli spazi sconfinati dell’universo. Nessun dio può portarle qualità nuove o strumenti più utili di quelli che già possiede. Deve sfruttare al meglio tutto ciò che già ha cercando, non di dare l’assalto al cielo, ma di fare della Terra il proprio paradiso.

Icaro è precipitato per essersi avvicinato troppo al Sole, in un certo senso voleva superare i suoi limiti e diventare una specie di semidio: per questa presunzione è stato duramente punito. Penso che l’umanità moderna, in quel frangente, sarebbe stata inghiottita dal mare per essersi abbassata troppo, per aver scelto di vivere secondo le passioni.

È ciò che succede agli ‘spiriti’ del mito platonico: alla fine si incarnano perché incapaci di resistere all’attrazione e alla spinta degli istinti.

Avremmo bisogno di un saggio auriga che sapesse indicare la strada, che riuscisse a penetrare nelle menti degli umani così da renderli capaci di capire gli autentici valori della vita in modo tale da indurli a vivere secondo razionalità.

Noi ci beiamo della definizione aristotelica ‘l’uomo è un essere razionale’ ma poi, che cosa ne facciamo di questa dote?

La disattendiamo, nel migliore dei casi, solitamente la infanghiamo e la chiudiamo nel dimenticatoio.

Se gli umani fossero degli esseri razionali capirebbero qual è il senso vero e profondo della vita, saprebbero gestire sé stessi così da garantire ad ognuno il massimo di ‘felicità’ possibile.

Non c’è altro scopo ‘razionale’ nella vita.

Invece ci comportiamo come lupi, che dico?, come coccodrilli: ognuno cerca di realizzare per sé il massimo di felicità possibile anche a costo di cancellarla per gli altri.

Dov’è la razionalità?

Io vedo solo rapacità.

Aristotele avrebbe dovuto affermare: l’uomo è un essere passionale che agisce per soddisfare i suoi istinti. Manifesta a volte anche un’attitudine razionale che, tuttavia, solo di tanto in tanto e per brevi periodi riesce ad imporsi.

Stranamente è proprio Platone, il filosofo dell’Iperuranio, a considerare con insistenza e profondità il lato più oscuro della persona umana.

Che trova il suo riconoscimento più esplicito nella filosofia di Schopenhauer.

Il volo d’uccello sull’umanità ci mostra migrazioni forzate, guerre distruttive, disuguaglianze abnormi, benessere e ricchezze esagerate per pochi e ristrettezze e sofferenze per i più.

Perché non recuperiamo almeno in parte la razionalità e decidiamo, finalmente, di vivere con dignità?

Si tratta, non dico di tendere verso le mete cui aspira il cavallo bianco ma, semplicemente, di realizzare una mediazione onorevole tra le opposte spinte.

DORMIRE (10-02-2023)

Vorrei tanto dormire: sempre.

Fare del sonno un’intera esistenza.

Certe mattine non mi sveglierei mai.

Il sonno, quando è sereno, è un’esperienza meravigliosa.

Purtroppo può essere anche agitato da incubi: in quel caso è mille volte meglio la veglia.

È chiaro che il sonno, in quanto tale, non è così appagante.

È quel che si prova da svegli, dopo il sonno, che ne determina il ‘colore’.

Se si è dormito a lungo tranquillamente, magari ripercorrendo momenti felici della propria passata esistenza, allora ci si risveglia ristorati, rinfrancati, riconciliati con la vita.

Se questa è amara, un cielo plumbeo senza sole, allora si vorrebbe ritornare a dormire, a vivere quella dimensione ‘senza coscienza’ che nulla promette ma che tante sensazioni positive trasmette.

Chi non preferirebbe, al posto di un’esistenza di sofferenza, una vita fatta tutta di catene interminabili di sonni sereni, tale da concludersi senza scossoni nell’ultimo sonno senza più risveglio?

Nel sonno si incontrano persone, si svolgono attività, si risolvono problemi: quando il sonno è positivo si raggiungono traguardi che nella vita normale sono rigorosamente esclusi. E se ne provano anche tutte le gioie, se ne assaporano le soddisfazioni.

Chi non vorrebbe tutto questo al posto di una vita di stenti, di umiliazioni, di fallimenti?

Una vita vissuta nel pavimento melmoso della sofferenza e del disagio.

Il sonno dura mediamente sulle 7 ore, con punte che arrivano fino a 8 o 9. Una parte ragguardevole delle 24 ore.

Se togliessimo alla vita di veglia i tempi morti, i periodi dedicati alle necessità fisiologiche, ci accorgeremmo che non rimane per l’attività cosciente molto più tempo di quello dedicato al sonno.

Nei fatti abbiamo due periodi giornalieri che quasi si equivalgono.

E’ chiaro che non possiamo dormire sempre, così come non possiamo restare svegli per tutte le 24 ore: si tratta dunque, soltanto, di esprimere una preferenza.

Se me l’avessero chiesto qualche quinquennio fa non avrei avuto dubbi: avrei scelto senza esitazioni la veglia.

Adesso francamente dovrei esprimere più di una perplessità

E se non sono ancora del tutto pronto per dire senza esitazioni che sì, preferirei un’esistenza di sonno a una fatta tutta di veglia, tuttavia non mi lamenterei se mi venisse assegnata per qualche tempo una vita di totale riposo.

Se gli umani apprezzassero di più il sonno forse sarebbero meno inclini a farsi la guerra o a impegnarsi con assiduità a rendersi la vita difficile.

Il sonno è levità, dolcezza, soavità.

Ne avremmo veramente bisogno, nella nostra vita di veglia nella quale, invece, diamo ampio spazio alla follia.

E’ proprio il caso di augurare a tutti: buon riposo!

IL NON DETTO – 2- (29-01-2023)

C’è un non-detto personale (volontario, soggettivo, caratteriale …): vi ho accennato nel mio post precedente.

E’ un non-detto che fa male e ferisce profondamente la persona che lo custodisce.

Perché sa che potrebbe dirlo, che dovrebbe dirlo ma non lo esprime.

Non tanto per mancanza di volontà o per una forma (in)consapevole di sadismo ma per un’incapacità intima a superare certe barriere interne.

Come ho scritto, questo non-detto – che andrebbe detto -, lacera l’animo di chi non lo esteriorizza.

Si tratterebbe di varcare la soglia, di abbattere quel muro che sembra invalicabile.

Quando lo si fa tutto diventa più semplice e agevole: ci si meraviglia, anzi, di non aver avuto per così tanto tempo il coraggio di far saltare quella barriera che sembrava di acciaio impenetrabile, che era in realtà di cartapesta.

Ma a parte questo non-detto ‘soggettivo’, ce n’è poi un altro, che chiamerei formale, istituzionale: è il collante che tiene insieme la società.

Fin dalla più tenera età veniamo educati a parlare di certe cose e a tacerne delle altre: veniamo formati a non dire tutto ciò che pensiamo degli altri, ad auto censurarci, a tenere per noi stessi ciò che potrebbe metterci ‘gratuitamente’ in contrasto con gli altri.

Lo facciamo in famiglia, con gli amici e ancor di più nella società allargata.

Se le persone si dicessero apertamente e sempre tutto ciò che pensano, non si potrebbe formare alcun tipo di società

Si può dire che uno dei fondamenti delle società umane è l’ipocrisia?

Credo di sì. Che non è una caratteristica innata ma acquisita: la società, proprio per difendersi, spinge tutti i suoi membri a rivestirsi di questo habitus fin dai primi anni di vita.

Nella fiaba ‘I vestiti nuovi dell’imperatore’ di Hans Christian Andersen è proprio un bambino che urla ciò che vede, ciò che tutti vedono ma che nessuno osa rivelare: ‘il re è nudo’ grida il piccolo vedendo l’imperatore andare in giro completamente nudo.

Lo vedevano anche gli adulti ma se ne stavano zitti, inchiodati com’erano a quel formalismo sociale che era diventato una seconda natura.

Io credo che una certa dose di ipocrisia sia necessaria al buon funzionamento della società: quanta?

Lo stabilisce la società con la sua maggiore o minore tolleranza.

Lo realizzano gli individui cercando, da una parte di salvare il vincolo sociale, dall’altra di non svendere la propria dignità.

L’ideale sarebbe di riuscire sempre ad esprimere tutto ciò che di positivo ‘sentiamo’ verso chi ci sta vicino e a gestire con cognizione di causa il tasso di ipocrisia necessario per garantire il buon funzionamento della società.

E, dato che l’ideale non è sempre praticabile, dovremmo almeno attestarci su un compromesso accettabile: che non degradi noi e che non ferisca gli altri.

Il NON-DETTO (28-01-2023)

Quante cose pensiamo, che non diciamo.

Quante ne vorremmo dire, che invece tacciamo.

Quante ne diciamo, che poi vorremmo non aver mai detto.

Nessun’altra nostra prerogativa è legata al rapporto con gli altri quanto il linguaggio.

È più facile pentirsi per ciò che si è detto: le parole a volte sono macigni che colpiscono e distruggono indiscriminatamente.

I loro effetti ci stanno sotto gli occhi e a volte ne paghiamo le conseguenze per anni.

Più sottile e difficile da indagare è il non-detto.

Non provoca i disastri del linguaggio ma sa essere, ugualmente, perfido e doloroso

Il linguaggio parlato ha una sfera di influenza più ampia, colpisce chi ci sta vicino ma può anche arrivare a investire e danneggiare soggetti che ci sfiorano solo superficialmente.

Il non-detto, in genere, ferisce i parenti, coloro che fanno parte della cerchia degli amici più stretti, perfino le persone più intime.

Non riconosciamo un pregio evidente, per esempio, o non esterniamo un affetto, un attaccamento che pure proviamo nell’animo.

Le cause di questi comportamenti possono essere diverse: a volte non dipendono da scelte volontarie ma da particolari caratteristiche della personalità.

Tanto è vero che soffre la persona che si aspetta qualcosa da noi ma ci angosciamo anche noi che vorremmo partecipare e che invece seppelliamo tutto nell’animo.

La soluzione sembra facile: basterebbe incoraggiare a parlare chi ha da dire, e a manifestare chi nutre certi sentimenti.

In realtà le cose non sono così semplici: niente è elementare per noi umani.

Per sbloccare le situazioni bisogna sempre essere in due: chi ha da dire o da dare e chi sente di dover ricevere.

Bisognerebbe che chi si aspetta un riconoscimento o una manifestazione non se ne stesse rintanato nei suoi accampamenti ad aspettare ma si aprisse in qualche modo cercando così di favorire le esternazioni.

Perché se è vero che soffre chi non si sente riconosciuto è altrettanto vero che sta male anche chi sente di dover pronunciarsi e non riesce a farlo.

Soprattutto se si è uniti da sentimenti veri e profondi.

Il non-detto va detto e i sentimenti vanno manifestati: per non soffrire inutilmente.

Se poi la persona cui noi dovremmo indirizzare i nostri positivi sentimenti viene meno prima di ricevere le nostre esternazioni allora rimane il rimpianto, l’inconsolabile rammarico.

Non ci sarà più modo di rimediare e quel non-detto resterà dentro di noi vita natural durante.

Ecco, questa riflessione potrebbe spingerci a fare il passo, anche contro la nostra volontà o il carattere poco espansivo.

Perché il non-detto può diventare un rovello implacabile che mette a rischio la pace interiore.

L’ELASTICO (26-01-2023)

Una canzone di Gaber ha come tema l’elastico.

Gaber immagina che corpo e anima siano collegati da una specie di elastico che, a seconda delle situazioni e delle circostanze, si tende o si allenta.

Finché l’elastico resiste la persona si tiene, sopravvive e fa la sua parte nella società.

Se si rompe c’è il crollo, l’individuo va alla deriva e alla fine si disintegra.

Si può strappare in tanti modi e per tanti motivi, l’elastico: sociali o personali o per entrambi.

La società dovrebbe fare di tutto per impedire che gli elastici si sfibrino e poi si rompano.

Non è in gioco solo la tranquillità e la felicità dei singoli ma anche la coesione e la stabilità delle comunità.

Molto spesso, invece, la società non fa niente, si comporta come se gli elastici non esistessero, come se le persone vivessero tutte una condizione di assoluta serenità: ma così le persone piano piano si disintegrano e vanno sempre più a fondo.

Finché corpo e anima non si ricompongono nella pace finale.

Lo spirito è pronto ma la carne è debole, recita il Vangelo.

In questi casi si riesce a sopravvivere: la vitalità, lo spirito riesce a trascinare il corpo e a spingerlo oltre l’ostacolo.

Ma ci sono situazioni, che il Vangelo non contempla, in cui il corpo sarebbe anche a posto ma lo spirito è affranto, debole, stremato, debilitato e fiaccato al punto da essere incapace di qualsiasi reazione o iniziativa.

Allora non c’è niente da fare, la persona va, irrimediabilmente, fuori giri e deraglia, alla fine crolla e si disintegra.

Credo che lo scopo principale, essenziale, di una società che vuole essere comunità sia quello di far sì che gli elastici dei suoi membri non si allunghino troppo fino a rischiare di rompersi.

Quando troppe persone vivono una condizione slabbrata e degradata, vivono nella solitudine e nell’isolamento, vivono tutte sole le tragedie che la vita immancabilmente getta tra i piedi, allora anche la società rischia di implodere o di esplodere: fino a realizzare non la comunità ma al punto da riproporre la foresta.

È già successo.

L’ideale sarebbe di arrivare ad eliminare gli elastici, a far sì che tutte le persone realizzino la compenetrazione e la pace vera tra anima e corpo: avremmo una società perfetta.

Questo, come tutti gli ideali, è forse irraggiungibile.

Ma gli ideali servono come mete verso cui tendere, per realizzare fino in fondo l’essenza vera della nostra umanità.

Questa meta, tuttavia, mi pare totalmente estranea al tipo di collettività che abbiamo realizzato.

La nostra società, bisogna dirlo chiaramente, anziché aiutare le persone a vivere realizzate e serene, ha creato degli abissi: tra gli individui e all’interno degli stessi.

Ci sono degli elastici interminabili che, lungi dal tenere uniti i membri, li allontanano al punto che non riescono nemmeno più a vedersi l’un l’altro, a non potersi più sentire come appartenenti ad uno stesso gruppo.

E, contemporaneamente, la separazione interna tra anime e corpi diventa sempre più reale e insuperabile.

La comunione sociale e personale, più che con i discorsi, si realizza con l’esempio.

Se tu, presidente della repubblica, predichi bene, nel senso che con i tuoi discorsi chiami la società all’integrazione e alla comunione ma poi vivi da nababbo, conduci cioè un’esistenza totalmente distaccata dalle condizioni reali in cui versa la maggioranza dei tuoi cittadini, non puoi certo pretendere che le tue parole siano efficaci, producano cioè gli effetti positivi che tu auspichi.

Si dovrebbe forse parlare di meno e adoperarsi fattivamente affinché la tanto sospirata armonia, sociale e individuale, possa realizzarsi.

Siamo anche qui nell’ambito dell’utopia?