GROUND ZERO (10-04-2023)

E’ il punto più basso toccato dalla storia umana in una determinata epoca.

Naturalmente la valutazione è ‘soggettiva’ e dipende dalle circostanze e dalla temperie culturale di un periodo.

L’espressione è stata usata negli ultimi decenni in riferimento a fatti storici abnormi, la cui portata è stata vissuta quasi come extra storica, come spartiacque tra un prima e un dopo.

A ben vedere, a parte l’uso contemporaneo che ne facciamo, la locuzione si potrebbe riferire ad un’infinità di eventi che hanno marcato con il fuoco la storia umana: dai quali, tuttavia, l’umanità è sempre riuscita a ripartire e a rigenerarsi.

Almeno fino ad oggi.

E così con Ground Zero ci si riferisce alla distruzione delle Twin Towers del World Trade Center, crollate in seguito all’attacco terroristico dell’11 settembre 2001.

Ma le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki del 6 e del 9 agosto 1945 come le chiameremo?

E quanti altri Ground Zero ha vissuto l’umanità nelle varie parti della Terra?

A Ground Zero si saranno sentiti i popoli occidentali quando sono stati travolti e sottomessi dalle ‘nuove’ popolazioni giunte da Nord e da Est (quelle che noi chiamiamo ‘barbari’); lo stesso potremmo dire delle genti assoggettate dai Mongoli e dagli Arabi; e degli indigeni d’America e degli aborigeni australiani. … … …

C’è poi un Ground Zero individuale, che tocca le singole persone.

Personalmente ho vissuto come una specie di Ground Zero anche l’uccisione di Salvador Allende dell’11 settembre 1973.

Molti hanno avuto ed hanno la fortuna di non vivere mai un loro personalissimo Ground Zero, ad altri ne tocca più di uno.

Alcuni soccombono al primo.

Non è facile vivere un Ground Zero e ancora più difficile è continuare a vivere dopo.

Forse è più facile vivere e sopportare un Ground Zero ‘sociale’ rispetto a uno personale.

Il primo, per quanto atroce, imprevisto e terribile, si distribuisce su più soggetti, anche su migliaia o milioni, il che, se non attutisce il colpo, ne distribuisce l’impatto e ne stempera in qualche modo gli effetti.

Il Ground Zero personale è più complicato da gestire, più duro e imprevedibile.

Anche qui dipende molto dalla trama dei rapporti sociali in cui l’interessato è inserito.

Chi è solo impreca, fatica, si divincola, cerca disperatamente una via d’uscita: può farcela o no, dipende dalle sue note caratteriali e di personalità. Tutte le soluzioni, anche le più drastiche, sono possibili e nessuna è prevedibile.

Melius est ergo duos esse simul, quam unum … Si unus ceciderit, ab altero fulcietur: vae soli: quia cum ceciderit, non habet sublevantem se (Ecclesiaste 4, 10) «Meglio è dunque essere due insieme piuttosto che uno solo … Se uno cade, l’altro lo sostiene; guai a chi è solo, perché quando cade non ha chi lo rialzi».

Guai a chi è solo! Lo intima la Bibbia. Chi è solo rischia di non trovare appigli per risollevarsi.

Il fatto è che la condizione di ‘solitudine’ non è sempre il frutto di una scelta consapevole ma è spesso la conseguenza di una serie di circostanze non sempre dipendenti dalla volontà individuale.

Le stesse note caratteriali che spingono una persona a non coltivare i rapporti sociali, difficilmente possono essere ascritte ad un soggetto come ‘colpa’.

La vita è un po’ come una corsa sulle montagne russe: non sempre la direzione che si prende è frutto di una scelta deliberata e consapevole ma è spesso obbligata, dettata dagli eventi.

Percorri un certo sentiero perché una serie di fattori ti ci hanno indirizzato: non puoi conoscere in anticipo tutte le ripercussioni della tue scelte né puoi sempre modificare il corso degli accadimenti strada facendo.

Allontana da me questo calice’: nemmeno l’uomo-dio Gesù ha potuto sottrarsi al suo terribile destino di dolore e annientamento.

Oltre alla trama sociale può essere di aiuto anche la fede: il credente può attingere le forze che non ha dalla divinità in cui ha riposto tutte le sue speranze.

Ma nemmeno la credenza in una divinità è automatica: la fede, in un certo senso, è un po’ come il coraggio di don Abbondio. Se uno non ce l’ha o non riesce ad accoglierla, non se la può dare.

Per non soccombere e non darla vinta al ‘destino’, si può praticare l’epochè: non tanto e non solo come atteggiamento gnoseologico ma proprio come condotta ‘pratica’.

Mettere tra parentesi tutte le avversità che grandinano sulla vita quotidiana, accettare le sfide della vita senza piagnucolare e senza piegarsi, portare il proprio fardello con dignità, in faccia alla crudeltà del destino.

In attesa di che cosa?

Non c’è niente di preciso da aspettarsi, solo la consapevolezza (l’orgoglio?) della propria piccola grandezza.

Solo parole?

Può darsi.

In certe situazioni-limite, anche le parole sono azioni.