Platone nel Fedro, per illustrare l’essenza della natura umana, ricorre al mito della biga alata.
Prima della nascita l’anima spirituale è paragonabile a una biga guidata da un auriga e trainata da due cavalli, uno bianco e l’altro nero.
Il cavallo bianco rappresenta la spiritualità immateriale, la tensione verso il bene.
Quello nero esprime invece l’inclinazione verso ciò che è sensibile, concupiscibile: cerca di trascinare la biga verso il basso, il mondo degli appetiti e dei piaceri materiali.
L’auriga impersona la razionalità, cui è affidata la conduzione della biga: dovrebbe tenere a freno il cavallo nero e favorire l’anelito positivo del cavallo bianco.
L’incarnazione dell’anima in un corpo rappresenta in un certo senso la vittoria, almeno momentanea, del cavallo nero che riesce a trascinare la biga nella materia.
Se questa ‘caduta’ sarà avvenuta frettolosamente, prima che l’anima abbia avuto il tempo di contemplare adeguatamente il mondo delle idee, avremo un individuo ignorante, rozzo, schiavo delle passioni.
Se invece il cavallo bianco sarà riuscito, grazie anche all’azione dell’auriga, a mantenere per un certo tempo la biga nel mondo delle idee perfette e immutabili, allora avremo una persona saggia, capace durante la sua esistenza di recuperare gli elementi positivi contemplati e di vivere uniformandosi ad essi.
Dall’antichità ci sono arrivati diversi miti che offrono altri insegnamenti.
Prendiamo per esempio il mito di Icaro: com’è noto, si tratta del giovane figlio di Dedalo che con il padre fugge dall’isola di Creta dominata dal tiranno Minosse.
Abbandonano l’isola in volo, grazie a delle ali impastate con la cera costruite da Dedalo: per volare a lungo e salvarsi bisognava non abbassarsi troppo verso l’acqua (le ali si sarebbero appesantite trascinando in mare il malcapitato), né si doveva tendere eccessivamente verso l’alto (il sole avrebbe sciolto la cera e determinato la caduta in acqua del temerario).
Com’è noto Icaro, contravvenendo alle raccomandazioni del padre, si diresse verso il sole e precipitò nei gorghi del mare.
E c’è anche un altro mito estremamente interessante: quello di Prometeo.
Costui era un titano, una specie di semidio che, sfidando i divieti di Giove, donò agli uomini prima l’intelligenza e la memoria e poi anche il fuoco, dopo averlo rubato dall’Olimpo.
Giove lo punì incatenandolo ad una roccia: qua, ogni giorno un’aquila scendeva a squarciargli il ventre e a dilaniargli il fegato. Di notte le ferite si rimarginavano così che il giorno dopo l’aquila poteva ripetere l’operazione. Per l’eternità, visto che i titani erano immortali.
Rispetto a questi miti antichi, considerando a volo d’uccello le condizioni attuali dell’umanità, si possono fare alcune riflessioni.
L’umanità non ha alcun semidio che si dia da fare per lei ma, come scrive Monod, vive sperduta negli spazi sconfinati dell’universo. Nessun dio può portarle qualità nuove o strumenti più utili di quelli che già possiede. Deve sfruttare al meglio tutto ciò che già ha cercando, non di dare l’assalto al cielo, ma di fare della Terra il proprio paradiso.
Icaro è precipitato per essersi avvicinato troppo al Sole, in un certo senso voleva superare i suoi limiti e diventare una specie di semidio: per questa presunzione è stato duramente punito. Penso che l’umanità moderna, in quel frangente, sarebbe stata inghiottita dal mare per essersi abbassata troppo, per aver scelto di vivere secondo le passioni.
È ciò che succede agli ‘spiriti’ del mito platonico: alla fine si incarnano perché incapaci di resistere all’attrazione e alla spinta degli istinti.
Avremmo bisogno di un saggio auriga che sapesse indicare la strada, che riuscisse a penetrare nelle menti degli umani così da renderli capaci di capire gli autentici valori della vita in modo tale da indurli a vivere secondo razionalità.
Noi ci beiamo della definizione aristotelica ‘l’uomo è un essere razionale’ ma poi, che cosa ne facciamo di questa dote?
La disattendiamo, nel migliore dei casi, solitamente la infanghiamo e la chiudiamo nel dimenticatoio.
Se gli umani fossero degli esseri razionali capirebbero qual è il senso vero e profondo della vita, saprebbero gestire sé stessi così da garantire ad ognuno il massimo di ‘felicità’ possibile.
Non c’è altro scopo ‘razionale’ nella vita.
Invece ci comportiamo come lupi, che dico?, come coccodrilli: ognuno cerca di realizzare per sé il massimo di felicità possibile anche a costo di cancellarla per gli altri.
Dov’è la razionalità?
Io vedo solo rapacità.
Aristotele avrebbe dovuto affermare: l’uomo è un essere passionale che agisce per soddisfare i suoi istinti. Manifesta a volte anche un’attitudine razionale che, tuttavia, solo di tanto in tanto e per brevi periodi riesce ad imporsi.
Stranamente è proprio Platone, il filosofo dell’Iperuranio, a considerare con insistenza e profondità il lato più oscuro della persona umana.
Che trova il suo riconoscimento più esplicito nella filosofia di Schopenhauer.
Il volo d’uccello sull’umanità ci mostra migrazioni forzate, guerre distruttive, disuguaglianze abnormi, benessere e ricchezze esagerate per pochi e ristrettezze e sofferenze per i più.
Perché non recuperiamo almeno in parte la razionalità e decidiamo, finalmente, di vivere con dignità?
Si tratta, non dico di tendere verso le mete cui aspira il cavallo bianco ma, semplicemente, di realizzare una mediazione onorevole tra le opposte spinte.