C’è un non-detto personale (volontario, soggettivo, caratteriale …): vi ho accennato nel mio post precedente.
E’ un non-detto che fa male e ferisce profondamente la persona che lo custodisce.
Perché sa che potrebbe dirlo, che dovrebbe dirlo ma non lo esprime.
Non tanto per mancanza di volontà o per una forma (in)consapevole di sadismo ma per un’incapacità intima a superare certe barriere interne.
Come ho scritto, questo non-detto – che andrebbe detto -, lacera l’animo di chi non lo esteriorizza.
Si tratterebbe di varcare la soglia, di abbattere quel muro che sembra invalicabile.
Quando lo si fa tutto diventa più semplice e agevole: ci si meraviglia, anzi, di non aver avuto per così tanto tempo il coraggio di far saltare quella barriera che sembrava di acciaio impenetrabile, che era in realtà di cartapesta.
Ma a parte questo non-detto ‘soggettivo’, ce n’è poi un altro, che chiamerei formale, istituzionale: è il collante che tiene insieme la società.
Fin dalla più tenera età veniamo educati a parlare di certe cose e a tacerne delle altre: veniamo formati a non dire tutto ciò che pensiamo degli altri, ad auto censurarci, a tenere per noi stessi ciò che potrebbe metterci ‘gratuitamente’ in contrasto con gli altri.
Lo facciamo in famiglia, con gli amici e ancor di più nella società allargata.
Se le persone si dicessero apertamente e sempre tutto ciò che pensano, non si potrebbe formare alcun tipo di società
Si può dire che uno dei fondamenti delle società umane è l’ipocrisia?
Credo di sì. Che non è una caratteristica innata ma acquisita: la società, proprio per difendersi, spinge tutti i suoi membri a rivestirsi di questo habitus fin dai primi anni di vita.
Nella fiaba ‘I vestiti nuovi dell’imperatore’ di Hans Christian Andersen è proprio un bambino che urla ciò che vede, ciò che tutti vedono ma che nessuno osa rivelare: ‘il re è nudo’ grida il piccolo vedendo l’imperatore andare in giro completamente nudo.
Lo vedevano anche gli adulti ma se ne stavano zitti, inchiodati com’erano a quel formalismo sociale che era diventato una seconda natura.
Io credo che una certa dose di ipocrisia sia necessaria al buon funzionamento della società: quanta?
Lo stabilisce la società con la sua maggiore o minore tolleranza.
Lo realizzano gli individui cercando, da una parte di salvare il vincolo sociale, dall’altra di non svendere la propria dignità.
L’ideale sarebbe di riuscire sempre ad esprimere tutto ciò che di positivo ‘sentiamo’ verso chi ci sta vicino e a gestire con cognizione di causa il tasso di ipocrisia necessario per garantire il buon funzionamento della società.
E, dato che l’ideale non è sempre praticabile, dovremmo almeno attestarci su un compromesso accettabile: che non degradi noi e che non ferisca gli altri.