Una canzone di Gaber ha come tema l’elastico.
Gaber immagina che corpo e anima siano collegati da una specie di elastico che, a seconda delle situazioni e delle circostanze, si tende o si allenta.
Finché l’elastico resiste la persona si tiene, sopravvive e fa la sua parte nella società.
Se si rompe c’è il crollo, l’individuo va alla deriva e alla fine si disintegra.
Si può strappare in tanti modi e per tanti motivi, l’elastico: sociali o personali o per entrambi.
La società dovrebbe fare di tutto per impedire che gli elastici si sfibrino e poi si rompano.
Non è in gioco solo la tranquillità e la felicità dei singoli ma anche la coesione e la stabilità delle comunità.
Molto spesso, invece, la società non fa niente, si comporta come se gli elastici non esistessero, come se le persone vivessero tutte una condizione di assoluta serenità: ma così le persone piano piano si disintegrano e vanno sempre più a fondo.
Finché corpo e anima non si ricompongono nella pace finale.
Lo spirito è pronto ma la carne è debole, recita il Vangelo.
In questi casi si riesce a sopravvivere: la vitalità, lo spirito riesce a trascinare il corpo e a spingerlo oltre l’ostacolo.
Ma ci sono situazioni, che il Vangelo non contempla, in cui il corpo sarebbe anche a posto ma lo spirito è affranto, debole, stremato, debilitato e fiaccato al punto da essere incapace di qualsiasi reazione o iniziativa.
Allora non c’è niente da fare, la persona va, irrimediabilmente, fuori giri e deraglia, alla fine crolla e si disintegra.
Credo che lo scopo principale, essenziale, di una società che vuole essere comunità sia quello di far sì che gli elastici dei suoi membri non si allunghino troppo fino a rischiare di rompersi.
Quando troppe persone vivono una condizione slabbrata e degradata, vivono nella solitudine e nell’isolamento, vivono tutte sole le tragedie che la vita immancabilmente getta tra i piedi, allora anche la società rischia di implodere o di esplodere: fino a realizzare non la comunità ma al punto da riproporre la foresta.
È già successo.
L’ideale sarebbe di arrivare ad eliminare gli elastici, a far sì che tutte le persone realizzino la compenetrazione e la pace vera tra anima e corpo: avremmo una società perfetta.
Questo, come tutti gli ideali, è forse irraggiungibile.
Ma gli ideali servono come mete verso cui tendere, per realizzare fino in fondo l’essenza vera della nostra umanità.
Questa meta, tuttavia, mi pare totalmente estranea al tipo di collettività che abbiamo realizzato.
La nostra società, bisogna dirlo chiaramente, anziché aiutare le persone a vivere realizzate e serene, ha creato degli abissi: tra gli individui e all’interno degli stessi.
Ci sono degli elastici interminabili che, lungi dal tenere uniti i membri, li allontanano al punto che non riescono nemmeno più a vedersi l’un l’altro, a non potersi più sentire come appartenenti ad uno stesso gruppo.
E, contemporaneamente, la separazione interna tra anime e corpi diventa sempre più reale e insuperabile.
La comunione sociale e personale, più che con i discorsi, si realizza con l’esempio.
Se tu, presidente della repubblica, predichi bene, nel senso che con i tuoi discorsi chiami la società all’integrazione e alla comunione ma poi vivi da nababbo, conduci cioè un’esistenza totalmente distaccata dalle condizioni reali in cui versa la maggioranza dei tuoi cittadini, non puoi certo pretendere che le tue parole siano efficaci, producano cioè gli effetti positivi che tu auspichi.
Si dovrebbe forse parlare di meno e adoperarsi fattivamente affinché la tanto sospirata armonia, sociale e individuale, possa realizzarsi.
Siamo anche qui nell’ambito dell’utopia?