NORMALITÀ (14-01-2023)

Cos’è la normalità della vita di un comune mortale?

E’ il tran tran che ad un certo punto si instaura nell’intreccio tra impegni lavorativi, cura della famiglia e tempo dedicato all’espressione della propria personalità.

Quando la vita quotidiana diventa un andare sicuro, fatto di pratiche consolidate, di decisioni già prese, di scelte adottate con il pilota automatico.

E’ un moto ‘immobile’, un procedere che, in un certo senso, è come lo stare fermi: è la sintesi pratica perfetta tra l’imperativo di Eraclito e il dogma di Parmenide.

Questo dinamismo statico a volte si interrompe, viene manomesso e stravolto non tanto da iniziative personali ma dagli eventi esterni, dall’intrusione nel ménage consolidato di accadimenti imprevisti e imprevedibili.

Raramente succede che la ventata del cambiamento porti con sé delle novità positive, tali da costituire una vera e propria svolta nell’esistenza.

In questo caso la fine delle precedenti pratiche è salutata con favore: si impone un nuovo e più favorevole andamento che trasforma la vita precedente e infonde nuovo slancio a tutte le attività.

Più spesso accade, ahinoi!, che la variazione si configuri come un vero e proprio stravolgimento in negativo delle consolidate abitudini costringendo i soggetti interessati a rivedere tutta la propria esistenza, a rammendarne gli strappi e, in definitiva, ad assestarsi su un train de vie totalmente diverso e sicuramente meno agevole del precedente.

C’è chi non accetta le alterazioni improvvise e radicali e fugge o si toglie di mezzo non ritenendosi idoneo a scalare la ‘nuova’ montagna.

E c’è chi, pochissimi, trasformano le mutazioni in energia, in forza propulsiva per far fare un balzo in avanti alla propria esistenza.

Credo che la maggioranza cerchi di adattarsi.

Naturalmente c’è modo e modo di adeguarsi: si può chinare la testa e subire senza reagire i colpi della sorte, sprofondando ogni giorno un po’ di più, in una discesa lenta ma inarrestabile che si concluderà solo con la morte naturale.

E c’è chi, pur ritenendo di non potersi sottrarre ai colpi della sorte, tiene comunque botta, come si suol dire, resta a testa alta, subisce – non può fare altrimenti – ma non si piega: sfida, in un certo senso, quel destino che sa invincibile e ‘vende cara la pelle’.

Nel mio piccolo credo di appartenere a questi ultimi: almeno fino ad oggi.

E in ogni caso, quant’era dolce il noioso tran tran precedente, come lo si rimpiange e desidera, dopo, quando è svanito per sempre travolto dagli avvenimenti, sepolto dalle proprie ubbie e dagli spasimi per le novità!

Rammaricarsi, dopo, è perfettamente inutile: quando il dolce e noioso andare delle cose è stato distrutto, niente e nessuno potrà più riviverlo com’era.

E’ come un bel vaso di terracotta: se cade e va in mille pezzi non potrà più ritornare come prima.

Maledetto tran tran, benedetto tran tran.

La sua distruzione è la molla del cambiamento, del possibile miglioramento.

La sua conservazione è l’espressione dello spirito di sopravvivenza: sarebbe anche, se se ne fosse consapevoli, la realizzazione di quello spicchio di felicità che è concesso agli umani.

Amiamo il tran tran ma invochiamo il cambiamento: quello immaginato e prefigurato da noi, però.

Quasi sempre ci tocca uno tsunami portato dal caso.

Non abbiamo meditato abbastanza la filastrocca di Giuseppe Giusti.

E il logos stoico rimane per noi qualcosa di lontano, inafferrabile e incomprensibile.

Ducunt volentem fata, nolentem trahunt’: scrive Seneca.

L’ideale sarebbe vivere in serenità la ‘normalità’ e con dignità i flagelli.

E tuttavia: quanto sei amabile, cara, noiosa normalità!

Al destino crudele, cinico e baro dico: cadrò in piedi!