Essere soli nella società contemporanea? Niente di più facile.
*) La solitudine è innanzi tutto una condizione radicale, vorrei quasi dire ontologica.
Penso sia una caratteristica dell’essere vivente in quanto tale, sicuramente lo è di quel particolare animale che è l’uomo.
Ci sono aspetti della nostra esistenza che sono indescrivibili e incomunicabili. Per quanto il nostro linguaggio sia elaborato e specialistico, non riuscirà mai a colmare il gap ‘naturale’ che ci separa dalle altre persone.
Prendiamo il dolore, la sofferenza, ad esempio: se uno dice che soffre, che prova dolore, come facciamo noi a capire quanto soffre, quant’è lancinante il suo dolore? Possiamo andare per analogia, paragonando la sua situazione ad un nostro stato ma non potremo mai afferrare l’entità precisa del suo sentire.
Qualcosa di analogo si potrebbe dire a proposito dei sentimenti, delle passioni, delle emozioni, degli stati della mente o dell’anima: ‘sono triste’, per esempio, che cosa vuol dire esattamente? È probabile che le sensazioni di chi prova e di chi accoglie la confidenza coincidano o, almeno, si avvicinino. Ma chi può dirlo? E in che misura?
*) C’è poi un tipo di solitudine che definirei psicologica, individuale e soggettiva.
Ci si sente soli perché si hanno dei problemi di relazione con gli altri, non si riesce a stabilire un rapporto, si ha l’impressione di non essere capiti e accolti.
Ci si sente soli perché si vive, per i più diversi motivi, una condizione di forte disagio: non riusciamo a parteciparla, non troviamo nessuno che voglia o che tenti di condividerla e quindi ci chiudiamo in noi stessi per trovare sollievo, per vivere orgogliosamente e in perfetto isolamento il nostro dramma interiore. C’è anche una forma di compiacimento, in questo.
Credo che l’autismo sia l’espressione massima di questa difficoltà ad aprirsi, di questa necessità di non rompere il proprio bozzolo per vivere murati vivi dentro la propria intimità.
*) E c’è anche una forma sociale di solitudine. Che viviamo quando ci sentiamo o siamo tagliati fuori dalla società, magari anche da quella società primordiale che è la famiglia. Può accadere per caratteristiche della nostra personalità o per la particolare struttura della comunità in cui ci troviamo inseriti.
Spesso la società (ma anche la famiglia) non eccelle per doti di pazienza e non è certo disposta a modificare sé stessa per fare posto a chi ha dei problemi. Tende invece ad escludere e ad isolare chi non si adegua, chi non si integra, chi non ce la fa a ‘giocare’ il ruolo che gli viene assegnato, chi non ci sta ad omologarsi.
Spesso basta vivere delle difficoltà di qualunque tipo per essere rifiutati dalla società.
E poi esistono sicuramente mille altre forme di isolamento e di auto – isolamento che determinano negli individui la sensazione di solitudine.
Io penso che tutti nella nostra vita abbiamo vissuto questo stato, più o meno a lungo, più o meno intensamente.
Essere soli o sentirsi soli può anche essere un’esperienza appagante se accettata consapevolmente e vissuta serenamente. Per un breve periodo può contribuire a ricaricare lo spirito, a trovare nuove motivazioni, a immaginare nuove strade da sperimentare.
Può essere gratificante se frutto di una scelta di vita operata per onorare una vocazione, per obbedire a una chiamata che si pensa irrinunciabile in quanto orientata a conquistare un bene superiore: penso alle scelte di vita monastica, per esempio, vissute per testimoniare dei valori ultra terreni.
E, in ogni caso, sono convinto che tutti hanno bisogno di vivere dei periodi di solitudine, delle fasi più o meno brevi di immersione in sé stessi o di dedizione assoluta a qualche occupazione o progetto ritenuti di vitale importanza.
Ma c’è anche la solitudine dell’uomo massa contemporaneo che pur vivendo immerso in un clangore assordante e ininterrotto è in realtà del tutto privo di ogni valore o contenuto: al punto che non può staccare nemmeno un secondo dai suoni e dalle luci del suo mondo pena il crollo totale della sua personalità.
Queste persone, piene solo di vuoto, non possono stare sole, non possono isolarsi, non possono proprio calarsi in una interiorità che non esiste, talmente povera da non poter offrire il minimo sostentamento.
Sono individui che non possono chiedere niente a sé stessi e che quindi pretendono tutto dalla società che non sempre è attenta alle loro esigenze (spesso non potrebbe proprio esserlo): si isolano quindi in un loro mondo asociale, fatto di pochi elementari algoritmi che a volte si concludono o con il suicidio o con una qualche indiscriminata strage.
Sole sono anche le persone che solitamente costituiscono le masse marcianti dei regimi totalitari: sono atomi vuoti che trovano la loro ragione di vita nel ripetere slogan pre-confezionati o nell’eseguire degli ordini di un’autorità riconosciuta come assoluta. Quali che siano.
‘Vae soli!’ (guai a chi è solo), ammonisce l’Ecclesiaste. Perché se si è almeno in due e si cade, c’è vicino qualcuno che può dare una mano; se invece si è soli, in caso di disgrazia non c’è chi possa aiutare.
Io credo che l’essere umano sia un animale eminentemente sociale (come ho scritto più volte) che, tuttavia, ha anche bisogno di vivere delle esperienze in perfetta solitudine per temprare le proprie forze e ricaricare lo spirito.
E’ essenziale, però, che le persone, abbiano un’interiorità ricca e robusta costruita attraverso la cultura e/o le esperienze.
Diversamente avremo dei disadattati pericolosi o degli uomini-massa pronti a tutto.
Bisogna saperla vivere, la solitudine: per arricchire sé stessi, non per nuocere agli altri!