L’ottocento si è spento con l’inquietante Ciclope di Odilon Redon.
Il ‘900 si aprì con l’urlo inudibile di Edvard Munch e le maschere beffarde di James Ensor.
Poi continuò con le figure storpiate di Otto Dix e i personaggi grotteschi e minacciosi di George Grosz.
Che cos’altro doveva dire la cultura del ‘900?
Potevano le arti figurative essere più esplicite?
Eppure … hanno gridato tutto l’orrore possibile ma nel ‘900 sappiamo com’è andata: due guerre mondiali con milioni di morti (più tutte le altre) più l’esplosione delle prime 2 bombe atomiche.
Era lecito immaginare che l’umanità avrebbe imparato la lezione.
Siamo soltanto all’inizio del 21° secolo e, a parte le mille guerre locali in atto, assistiamo in Ucraina, nel cuore dell’Europa, ad un intenso cannoneggiamento intorno ad una grande centrale nucleare, mentre in Oriente la Cina si appresta a strangolare Taiwan.
Se consideriamo i due grandi conflitti mondiali del ‘900, dobbiamo riconoscere che, in fondo, sono scoppiati per molto meno.
Stiamo ballando attorno alla bocca di un vulcano che potrebbe inghiottirci tutti.
Temiamo tanto gli eventi climatici, i movimenti del nostro pianeta e quelli degli altri corpi celesti: non ci accorgiamo che siamo noi che ci accingiamo a sterminare noi stessi.
Tra il 13° e il 15° secolo molti pittori (ancora la pittura! *) hanno affrescato intere pareti per rappresentare il tema della morte: alcune ci mostrano la morte che cavalca sfrenata brandendo la falce sopra tappeti di persone ormai prive di vita (ricordo l’affresco del Sacro Speco, sopra Subiaco).
Le terribili pestilenze del Medio Evo svuotarono le città e offrirono ai pittori copioso materiale per la loro arte e al popolo un’occasione per rabbrividire e meditare.
La danza macabra che illustra la chiesa della Santissima Trinità di Cristoglie in Slovenia e quella che ricopre la facciata dell’oratorio di Clusone in provincia di Bergamo esprimono chiaramente lo spirito dell’epoca: la morte accompagna re, imperatori, papi e vescovi riccamente vestiti al loro ultimo passo.
Con leggiadria ma anche senza tentennamenti.
Gli individui condotti alla morte, dalla morte, sono sempre, appunto, personaggi di alto rango, principi e nobildonne mai popolani malvestiti. I poveri paesani, che conducevano una vita di stenti, soggetta a continui soprusi da parte dei potenti, vivevano la morte ogni giorno come evento familiare: non avevano bisogno che gli venisse rappresentata.
Quegli affreschi volevano essere di monito, invece, per i potenti che godevano una vita agiata sulle spalle del popolo, accumulavano ricchezze succhiando il sangue dei contadini, vivevano come se non avessero dovuto morire mai, come se non avessero mai dovuto presentarsi davanti a quell’ultimo tribunale in cui credevano.
Ma se la sensibilità del Medio Evo è riuscita a produrre rappresentazioni tanto significative e crude, che cosa dovrebbero realizzare i contemporanei per scuotere le coscienze?
I morti nel Medio Evo, nei casi più gravi, si contavano a decine di migliaia, in età contemporanea li abbiamo accatastati a milioni, a decine di milioni.
Abbiamo costruito i cimiteri, gli ossari, i sacrari e i ‘parchi della rimembranza’, è vero, ma la loro visita non turba più di tanto: ci si va come se si trattasse di visitare un museo.
Le persone del Medio Evo erano terrorizzate dalle rappresentazioni della morte; oggi la morte è diventata un evento quotidiano, declinato nei modi più diversi e in quantità talmente consistenti da non riuscire più a impressionare.
La danza macabra che nel Medio Evo veniva affrescata sui muri, ai nostri giorni viene attuata dal vero in diverse parti della Terra: più che di una danza, oggi, si dovrebbe parlare di un’orgia.
Come lo vogliamo chiamare il volteggiare di aerei e mezzi navali attorno a Taiwan e lo scoppio continuo di bombe attorno alla centrale nucleare di Zaporižžja, la più grande d’Europa?
Noi, che trattiamo con sufficienza i nostri progenitori medievali perché ci crediamo più evoluti, non ci facciamo impressionare da niente, non siamo più capaci di imparare dalle tragedie che ci hanno colpito solo pochi decenni fa, andiamo allegramente, incoscientemente e in massa incontro a quella morte che i nostri antenati cercavano, almeno, di esorcizzare.
Le guerre, la morte, il pericolo atomico?
Non scatenano passioni, non suscitano reazioni decise: le viviamo come un’ insignificante quotidianità priva di qualsiasi afflato.
Siamo i ciechi di Bruegel che, ognuno con la mano sulla spalla dell’altro, procediamo imperterriti verso l’abisso che ci attende.
Non siamo i ciechi di Saramago che tentano, almeno, di allearsi per far fronte all’improvvisa disgrazia.
* [ Anche la letteratura si è occupata del ‘trionfo della morte’ in occasione delle grandi pestilenze. Boccaccio, nell’introduzione del Decameron, presenta una descrizione piuttosto cruda della peste del 1348. Le cento novelle che compongono il corpo dell’opera, tuttavia, attenuano e derubricano quasi a pretesto quell’incipit angoscioso. Qualcosa di simile si potrebbe notare a proposito del racconto della peste del 1630 che troviamo nei Promessi Sposi. Manzoni, che sembra riassumere la brutalità dell’evento nell’espressione ‘turpe monatto’, alla fine stempera e quasi sublima il terribile contesto nelle figure di Cecilia e di sua madre].