A partire da Aristotele, che ha definito l’essere umano come ‘animale sociale’, la riflessione sulle caratteristiche essenziali della nostra specie ha attraversato tutto il pensiero occidentale arrivando fino ai nostri giorni.
Ci sono poi stati molti altri pensatori e movimenti che hanno affrontato questa tematica: in termini propriamente culturali e anche con tentativi ‘pratici’.
Per quanto riguarda questi ultimi possiamo dire che, nel corso della storia sono sempre stati violentemente osteggiati e i loro promotori massacrati: valga per tutti l’esempio degli Anabattisti di Münster nel ‘500.
La realizzazione più clamorosa ‘riuscita’ la troviamo in Russia nel ‘900 con la vittoria del movimento dei Soviet: a parte le stragi e i massacri, sappiamo tutti com’è finito quell’esperimento’. In un eccesso di burocrazia che alla fine l’ha soffocato.
Per quanto concerne l’aspetto più propriamente culturale gli autori e i movimenti da citare sono legioni e certamente non possono rientrare in questa mia breve riflessione.
Posso ricordare il Cristianesimo che ha fatto dell’amore del prossimo e dell’uguaglianza tra le persone le sue bandiere distintive. Le sue élites si sono però legate quasi subito al potere politico e militare mettendo così in secondo piano il nucleo ideale della dottrina.
Questa idea della ‘socialità’, della comunità, dell’amore reciproco, poco vincente e sempre soccombente, non è mai morta del tutto e, sul piano culturale, è sempre rimasta viva, riemergendo di tanto in tanto, come un torrente carsico, a reclamare la propria legittimità.
In questo senso, sono degni di nota, almeno due indirizzi.
Il primo si è sviluppato tra ’500 e ‘600 e ha prodotto alcuni testi memorabili: per tutti l’Utopia di Thomas More e ‘La Città del Sole’ di Tommaso Campanella (entrambi ‘Tommaso’, neanche a farlo apposta!).
Ci sono poi da considerare alcuni filosofi scozzesi che tra la fine del ‘600 e il ‘700 hanno elaborato delle filosofie che, pur diverse, hanno tutte sottolineato l’importanza che ha la ‘naturale’ propensione degli esseri umani a cercare gli altri, a legarsi agli altri.
Posso citare Thomas Reid (ancora Tommaso!), Francis Hutcheson, Anthony Shaftesbury e, soprattutto, David Hume.
In epoca moderna e contemporanea possiamo ricordare Pierre Joseph Proudhon, Karl Marx e il movimento Anarchico.
Sia come sia a fronte delle realizzazioni che alla fine sono state privilegiate dalle società umane, nel pensiero e nei tentativi ‘pratici’ non è mai morta l’istanza comunitaria.
Storicamente si è affermato l’indirizzo ‘anglosassone’, chiamiamolo così, imposto alle comunità umane prima dall’impero britannico e subito dopo dalla potenza statunitense.
Si tratta di un orientamento culturale che privilegia le esigenze individuali a scapito delle istanze sociali.
È così che nelle nostre società convivono gomito a gomito singoli personaggi ricchissimi e masse di diseredati che faticano a sopravvivere.
Lo accettiamo come normale, quasi fosse un comandamento di Dio o una legge della natura.
Io penso che negli esseri umani siano forti entrambe le esigenze: sia quella che richiede uno spazio vitale per l’individualità, che l’altra che sottolinea l’importanza della comunità.
Penso che la ‘socievolezza’, come affermavano i filosofi scozzesi sopra citati, sia non solo una spinta energetica di base della nostra natura, ma una condizione indispensabile per la sopravvivenza della specie.
Gli esseri umani, a differenza di molti altri mammiferi, nascono del tutto indifesi e incapaci di provvedere a sé stessi: abbisognano di un lungo periodo di cure per poter sopravvivere e diventare capaci di camminare sulle proprie gambe.
Non solo: ogni qualvolta una persona si trova in difficoltà, per malattia o per qualche altro evento esterno, ha bisogno degli altri per resistere e riprendersi.
E non vale solo per i singoli ma anche per le comunità: lo vediamo in occasione delle catastrofi naturali, per esempio.
Invece, nella vita di tutti i giorni, prevale la spinta egoistica, la lotta di ognuno contro tutti, il predominio dei più forti. (Forse sarebbe bene rileggere Thomas (!) Hobbes).
Per quanto mi riguarda penso che non sarebbe male recuperare a tutti i livelli l’istanza comunitaria.
La nostra specie vive una fase di grande conflittualità che rischia di decretarne l’estinzione.
Il Pianeta, con i suoi cambiamenti – anche climatici -, ci prospetta situazioni molto complicate e dure da affrontare.
Sarebbe il momento di riscoprire e di potenziare quella spinta a fare comunità che pure caratterizza le nostre ‘corde’: per puro istinto di sopravvivenza, se non altro.
O vogliamo continuare a permettere le attuali macroscopiche e inaccettabili disuguaglianze che, non è difficile da indovinare, prima o poi ci porteranno tutti nell’abisso?
Abbiamo, a mio avviso, una sola possibilità di salvezza, come specie: realizzare delle autentiche comunità, sia a livello locale che come umanità nel suo complesso.
L’individualismo esasperato ci ha portati in un cul de sac.
Come facciamo a non capire che l’unica via di salvezza sta nella ‘COMMUNITAS’?