Siamo bombardati ogni giorno da notizie di morte.
A parte le guerre – guerre alla ribalta e guerre sconosciute, quelle improvvise e quelle endemiche- che mietono ogni giorno morti a go go, ci sono poi altre situazioni che portano morte.
Gli eventi atmosferici, per esempio, tempeste, tornado, la stessa siccità: falciano vite umane tutto il tempo dell’anno.
C’è poi il pianeta che con i suoi movimenti – terremoti e vulcani – spegne esistenze a frotte.
E, naturalmente, non manca in questa mattanza la mano dell’uomo: cede una diga, si guasta una centrale atomica, cade un aereo …
Senza pensare ai morti sul lavoro, per malattia, per incidente stradale, per naufragio.
Muoiono coloro che restano nel posto dove sono nati e muoiono quelli che tentano di fuggire …
Insomma la morte è diventata parte del nostro quotidiano, tanto che spesso non fa più notizia.
Abbiamo accettato di viverci insieme, di dormirci insieme, di godere insieme.
Tutti questi morti, migliaia di morti ogni giorno, non sconvolgono la nostra esistenza: ognuno di noi vive tranquillamente la sua vita come se niente fosse, come se tutti, in tutte le parti del mondo, fossero in festa.
Basta che la morte non entri nei nostri recinti, non lambisca il nostro ambito famigliare o la cerchia degli amici più cari.
Perché allora essa assume i suoi veri contorni, diventa quell’evento capitale, inesorabile, definitivo che scuote dalle fondamenta la nostra stessa esistenza.
Mi sono chiesto più volte come sia potuto accadere che noi esseri umani, dotati di sensibilità e intelligenza, abbiamo accettato di convivere con l’evento che più di ogni altro contrasta con tutto ciò che siamo.
(Naturalmente non mi riferisco alla morte intesa come fine naturale della vita: penso alla morte che recide anzitempo esistenze che sarebbero destinate a prolungarsi nel tempo, senza l’intervento di ‘violenze’ estranee di vario genere).
Le risposte sono sicuramente molteplici e ognuno si darà le sue.
Personalmente sono giunto a questa conclusione provvisoria.
La morte, anticipata in maniera violenta, è il risultato di un eccesso di vita.
Alla base di tutti gli altri eccessi c’è senz’altro l’eccesso di popolazione.
Si dice che, teoricamente, la Terra potrebbe alimentare altri miliardi di popolazione: può anche essere vero ma, di fatto, così non è.
Già stiamo violentando in maniera parossistica il mondo animale e quello vegetale eppure, ugualmente, non riusciamo a sfamare adeguatamente tutti gli esseri umani viventi.
(Il 28 luglio u.s. è stato ricordato l’Earth Overshoot Day: è il giorno in cui l’umanità ha esaurito tutte le risorse alimentari previste per quell’anno. Il che vuol dire che da qui al 31 dicembre viviamo in prestito. A spese di chi?)
Fame significa malattie, sottosviluppo e migrazioni: milioni di morti supplementari.
E poi ci sono tutti gli altri eccessi: di popoli e individui che pretendono per sé e solo per sé stessi un surplus di vita, condizioni migliori, una vita al quadrato, sopra le righe: a scapito dei loro consimili, costretti molto spesso a farsi da parte o a soccombere.
Eppure la vita è il bene supremo che ogni vivente ha, che ciascuno di noi ha: un bene che tutti dovrebbero poter godere in modo almeno dignitoso.
Dopo millenni di storia ancora non siamo arrivati a capire questo: quando qualcuno esige un di più solo per sé stesso, inevitabilmente toglie agli altri i loro diritti di base.
Anche in questo genere di questioni funziona una legge inesorabile dell’ambito economico: se l’offerta è eccessiva, il bene, qualunque esso sia, perde valore.
Troppa vita, in generale, troppo spazio vitale perseguito in proprio dai singoli e dai popoli?
Il risultato è la morte.