Quando si parla di ‘banalità’ mi viene sempre alla mente ‘La banalità del male’ , il memorabile testo di Hannah Arendt.
Non intendo parlare di quel tipo di banalità: è già stato fatto in maniera sublime.
Vorrei solo esternare alcune riflessioni sulla banalità ‘quotidiana’, quella che ci avvolge in ogni momento come nebbia, che gronda dai televisori e mette in mora il cervello.
È la stessa che riempie giornali e riviste oltre che la bocca dei politici, rumoreggia incontenibile nei talk show e spesso si materializza perfino nei discorsi degli uomini di chiesa.
Questa banalità consiste nel dire il nulla, nello scrivere il nulla, nell’urlare il nulla, nel predicare il nulla.
Credo che in parte sia anche legata all’ipocrisia di fondo che connota, necessariamente, i rapporti umani.
Una delle prime ‘verità’ che ho imparato studiando psicologia (leggendo Freud e altri) e sociologia, riguarda proprio la sostanziale ‘falsità’ che caratterizza gli scambi tra le persone.
E’ qualcosa che impariamo nei primi anni della nostra esistenza e che poi, nelle persone cosiddette normali, diventa un habitus, mentre rimane una conquista precaria nei disabili mentali gravi.
Consiste nel fatto che noi ci abituiamo (veniamo abituati a ) a non esprimere chiaramente e fino in fondo ciò che pensiamo delle persone che ci stanno accanto.
Diciamo qualcosa e molto lo simuliamo.
Infatti noi esseri umani non possiamo prescindere da una certa dose di ipocrisia come base della convivenza sociale: se tutti dicessero apertamente in faccia ai loro vicini ciò che effettivamente pensano di loro, scoppierebbe una guerra continua, di ciascuno contro tutti.
Invece impariamo a nascondere, a fingere (almeno in buona parte), a tacere ciò che magari potrebbe far male, colpire in profondità la sensibilità altrui: diciamo e non diciamo e così tiriamo avanti e salviamo la generale compatibilità.
D’altra parte, questo regalo che facciamo agli altri ci viene restituito tale quale, così che possiamo vivere a contatto di gomito senza farci del male.
Quando questo elementare modus vivendi viene stravolto, allora ci si aggredisce e ci si può anche ammazzare: succede tutti i giorni.
L’ipocrisia di fondo deve essere ben gestita perché se da una parte, come appena scritto, può portare alla ‘guerra’, dall’altra può irretirci nella banalità.
C’è chi, per non essere banale, carica gli interlocutori a testa bassa facendo strame dell’ipocrisia di fondo e riversando sui malcapitati anche gli ‘apprezzamenti’ più ingiuriosi: salvo, però, a non tollerare alcuna osservazione men che positiva nei riguardi della propria persona (Sgarbi?).
E c’è chi, per non avere problemi, non solo accetta l’indispensabile finzione di fondo funzionale alla normale vita della società, ma la trasforma in un vero e proprio stile di vita calandosi mani e piedi legati – occhi bendati e orecchie tappate – dentro la più ottusa banalità (qui non faccio nomi perché gli individui banali sono legioni).
Di fatto noi viviamo immersi nella banalità, sopraffatti dalla banalità e subiamo le incursioni estemporanee e sbracate di chi per colpire l’universale banalità usa il proprio ego come un cannone-idrante.
Non sappiamo evitare gli estremi, contemperare la necessaria ipocrisia di base con l’esigenza di salvaguardare la nostra identità, l’autonomia di pensiero e di giudizio.
Non posso certo andare a sparare in faccia a chi mi sta vicino tutto quello che mi passa per la testa ma, nello stesso tempo, posso ritagliarmi quello spazio di indipendenza che mi permette di non vergognarmi di me stesso, di costruirmi una personalità indipendente capace anche di pensieri e idee originali.
Senza urlare, senza insultare, senza inveire.
Resistendo alle ‘vulgatae’ che vengono costruite dal potere e dai media, difendendomi dalle bordate degli sfrenati narcisisti ‘egotisti’.
La banalità è dappertutto, filtra da ogni dove, percorsa di tanto in tanto dai lampi dei ‘distruttori’ di professione ma non per questo (o proprio per questo) è meno invadente e pervasiva.
E rischiamo spesso di cedere, di diventare a nostra volta banali seguendo l’andazzo, di ripetere frasi fatte trite e ritrite, di pensare le ovvietà indotte da un indottrinamento martellante e insistente.
Riflettere, concepire un proprio pensiero autonomo e argomentato, elaborare originali percorsi ideali fondati sulla logica e irrobustiti dall’immaginazione: dovrebbe essere questo un serio proposito da praticare con assiduità.
Se temiamo la solitudine dell’indipendenza di giudizio, c’è sempre la calda e protettiva coperta della banalità, pronta ad accoglierci e a proteggerci.
Soprattutto da noi stessi.