FILOSOFIA, STORIA e … FELICITÀ (11-05-2022)

Ho praticato la filosofia per una vita, anche per necessità professionale, così come, per gli stessi motivi, mi sono sempre interessato della storia.

Quando parlo di filosofia non ho in mente l’indagine specialistica fatta di approfondimenti capziosi e di tecnicismi da iniziati.

Penso a quell’attitudine socratica che spinge a interrogarsi su tutte le questioni che riguardano l’esistenza umana. E, naturalmente, a darsi delle risposte.

Analogamente, quando scrivo della storia, non intendo il lavoro specialistico dello storico votato alla ricerca e all’interpretazione dei documenti e dei reperti.

Mi riferisco soprattutto allo studio degli eventi che hanno caratterizzato l’evoluzione dell’umanità, la vita dell’umanità nel corso dei millenni e dei secoli.

In ogni caso sono spinto dalla curiosità e dall’amore per la conoscenza in quanto tali.

Per trarne degli insegnamenti?

Non propriamente.

Più che altro ne derivo delle riflessioni, delle conclusioni provvisorie che poi confronto con altri dati, con le considerazioni che sono state fatte da altri soggetti al fine di formarmi un’opinione sempre più motivata e meditata.

Ho spesso trovato, soprattutto negli scritti dei pensatori più antichi, l’idea che la conoscenza rende l’uomo più felice. Che si è tanto più felici, quanto più si indaga e si approfondisce, quanto più ci si interroga sulla condizione umana e si cerca di darsi delle risposte se non esaurienti, almeno plausibili.

Non mi pare che questo sia vero.

‘O greggia mia che posi, oh te beata, che la miseria tua, credo, non sai! Quanta invidia ti porto!’

Questi versi del Leopardi esprimono bene ciò che intendo affermare.

Non è detto che indagare, interrogare, interrogarsi e approfondire siano le vie maestre verso la felicità, anzi.

Possono indurre nell’animo incertezza e dubbio, insicurezza e provvisorietà.

Più si riflette e più si mettono alla prova i propri punti fermi, le certezze e le convinzioni più radicate.

Con il risultato di vivere una condizione esistenziale piuttosto turbolenta, poco serena e per nulla felice.

Certo, la conoscenza in quanto tale può suscitare uno stato di auto compiacimento, di temporaneo appagamento, di transitoria eccelsa soddisfazione: si può provare la vertigine della scoperta o, magari, l’hybris della conquista intellettuale.

Sensazioni appaganti ma passeggere che non significano felicità.

‘Beata ignoranza’ proclama con sicurezza il detto popolare.

Non so se e quanto sia vero e tuttavia, guardandomi intorno non posso non confermarne una robusta verosimiglianza. (La persona ignorante vive di certezze apodittiche: è anche felice? Tale vuole farsi vedere. Lo è realmente? Non saprei).

Più che al pensiero in quanto tale, ritengo che la felicità sia legata al fare: al produrre con intelligenza e perizia, al creare qualcosa di importante o anche solo di funzionale, per sé e per gli altri.

La felicità è molto più probabilmente collegata all’arte, alla tecnica e all’artigianato e comunque a tutte quelle attività che implicano la realizzazione di qualcosa, l’applicazione di un pensiero al fare, al plasmare, al realizzare.

Si può trattare di una sedia, di una casa, di un armadio, di un impianto e magari anche di una statua, di un brano musicale o di una poesia: sempre e comunque di un pensiero impegnato nella realizzazione di un prodotto.

La riflessione in quanto tale, rivolta alla pura e semplice considerazione della condizione umana in tutti i suoi aspetti, raramente genera felicità: irrequietezza esistenziale tanta, non felicità.

(Più che di felicità, poi, parlerei di appagamento e contentezza. Stati d’animo sempre relativi e temporanei. Non penso che la felicità in quanto tale appartenga alla nostra specie.)