MIA MADRE (in morte di) 26-01-2022

(Questa volta mi permetto un ricordo personale, leggermente modificato ma neanche tanto. Nella vita, anche negli affetti più cari, non sempre le cose vanno come vorremmo, come pensiamo che debbano andare. Cadono spesso nel vuoto frasi non dette, baci non dati: cadono e niente e nessuno potrà più recuperarli lasciando nell’animo un indelebile rammarico).

Mia madre era del 1906, una donna d’altri tempi.

Sposatasi nel 1928 andò ad abitare in quella che sarebbe diventata la dimora della sua vita.

Era nata ed aveva trascorso la giovinezza in una cittadina dinamica, centro degli affari e del commercio di tutto il circondario.

Con il matrimonio dovette trasferirsi in una isolata e remota campagna, oscurata dalle nebbie d’inverno e soffocata dall’afa d’estate.

Più che con il marito, nei primi lunghi anni di matrimonio, dovette vedersela con il suocero, inflessibile padre padrone di quella piccola comunità.

Dovette difendersi da sola dato che il marito, mio padre, era troppo impegnato nel lavoro e vittima di una inscalfibile devozione verso il proprio padre.

Tra un aborto e l’altro mise al mondo 12 figli: 2 morirono in tenera età, 10 divennero adulti e, quando fu il loro turno, approdarono in salute nella vecchiaia.

Lavorò duramente per la sua famiglia, rintuzzando le pretese autocratiche del suocero e sopportando la ruvida estraneità del marito.

Arrivata a 60 anni si godeva la stima e l’affetto di figli e nipoti cogliendo così il frutto delle sue incommensurabili fatiche.

Non durò a lungo quel meritato ristoro, dato che la sua vecchiaia venne funestata da una serie interminabile di acciacchi e malattie.

Fino all’ultima che la portò quasi ottantenne su un letto dell’ospedale di zona.

Era un pomeriggio di prima estate, ricevette le visite di qualche figlio e del marito, sembrava tranquilla, certamente non in preda alla sofferenza.

Dopo un breve conciliabolo, decidemmo che per quella notte sarei rimasto io a vegliarla: sembrava che non ce ne fosse bisogno ma visto il complicato periodo appena trascorso, pensammo che era opportuno starle vicino. Almeno fino a che non avesse dato prove certe di aver superato le insidie più pericolose.

Si assopì, ad un certo punto, dopo avermi sussurrato che sarei potuto starmene a casa, perché lei non aveva bisogno e quasi soffriva nel vedermi seduto là a vegliare il suo sonno.

Quelle poche parole appena bisbigliate incoraggiarono la mia sonnolenza e dato che sentivo che non avrei resistito le presi una mano, in modo da avvertire i suoi movimenti.

Era notte inoltrata quando sentii un tremito, mi svegliai prontamente e mi chinai su di lei: aveva gli occhi aperti, respirava a fatica e a stento controllava il tremito delle membra. Sembrava che mi volesse parlare ma non riusciva ad articolar parola.

Suonai il campanello per far venire l’infermiera. Tardò ad arrivare e intanto rimanemmo per alcuni minuti in quella posizione: le tenevo la mano, mi guardava dolcemente anche se un po’ smarrita, la scrutavo con apprensione e sgomento, preso da un’infinita pietà.

Ebbe un sussulto, per qualche istante abbassò lo sguardo, mi strinse forte la mano, prima ero io che la stringevo, riaprì gli occhi e mi guardò con tenerezza e un’intensità che non avevo mai notato, quasi a cercare in me un po’ di quella vita che lei mi aveva così generosamente donato, la sua mano si afflosciò, guardò verso l’alto e rimase immobile. Nel frattempo era giunta l’infermiera che ne constatò il decesso, le abbassò le palpebre e tornò nell’ufficio per dare il via alla burocrazia di rito.

La baciai sulla fronte ancora calda, continuai a tenerle la mano e rimasi a contemplarla finché non arrivarono gli officianti preposti.

Era serena: aveva un’espressione dolce e quasi serafica. Non l’avevo mai vista così composta, riposata.

Anni dopo, osservando nel letto di morte il volto severo, tirato e austero di mio padre, non potei non ricordarmi la sua espressione distesa. Pareva che la morte avesse rispettato e riproposto le loro esistenze.

Tutto vero ma solo fino ad un certo punto.

Il volto di mia madre ho potuto contemplarlo soltanto dopo, a trapasso avvenuto: era ancora così, come l’ho descritto.

In realtà, con tutti i suoi figli e nipoti, è morta sola: per quella sera si era deciso che l’assistesse una nuora che, avendo l’abitudine di attaccar bottone con tutti, certamente non sarà stata presente nel momento cruciale.

È un rammarico indicibile ricordare quell’evento, una vera e propria sofferenza.

Quanto avrei voluto esserle accanto e fare tutto quello che ho descritto! Per me e per lei.

In realtà io non c’ero, non c’era nessuno dei figli.

Quei baci non scambiati, quegli sguardi persi, quelle strette di mano solo rimpiante rimarranno per sempre scolpiti nel mio cuore, a segnare una dolorosa e irreparabile mancanza.

I treni della vita sono proprio così: passano veloci che non ne intravedi nemmeno l’ultima carrozza. Passano e non tornano più.

Ne arriveranno altri che ci si ingegnerà di non perdere: ma quelli no, sono andati per sempre.

Resteranno soltanto nella mente, a torturarci un po’, fino a quando anche noi non diventeremo un treno svanito dietro l’ultima curva.